Pixel Pancho, lo street artist dei robot
“Siamo stati nel suo laboratorio torinese per raccontarvi storia, luoghi e progetti di Pixel Pancho, street artist con la passione dei robot
Il suo prossimo lavoro lo porterà a Berlino per un’installazione esterna, commissionata dal museo di urban contemporary art: “Farò un’Ofelia robotica con dei funghi fluorescenti che le cresceranno dentro la pancia, insieme a due entità sempre robotiche che cercheranno di prenderla. L’installazione comprenderà il resto di una fontana della Berlino degli anni ’20, poi bombardata nel conflitto mondiale, ora relegata sotto un ponte della metro. I funghi fluorescenti naturali, che di solito crescono nella foresta nera, sono il tentativo di ottenere un’illuminazione naturale”.
Chi mi sta raccontando la sua prossima creazione è un torinese di trentatre anni, nome d’arte Pixel Pancho. È uno street artist di fama internazionale che, dopo aver mosso i primi passi tra Torino e Valencia, ha lasciato la propria impronta sui muri di mezzo mondo. Il suo marchio di fabbrica, la sua carta d’identità, sono dei robot dai tratti umani.
### I robot: un marchio di fabbrica
“Sono una metafora dell’uomo. Secondo le religioni dio o gli dei hanno creato l’uomo a loro immagine e somiglianza. L’essere umano nella storia ha sempre cercato di essere dio, creando e cercando di controllare le cose che aveva intorno. Volevo far vedere gli errori fatti dall’umanità ma attraverso un robot, che è figlio dell’uomo. È come guardarci da un altro punto di vista”.
L’idea del robot gli è venuta per le strade di Torino quando girovagava con gli amici alla ricerca di treni e pareti, armato di bombolette spray: “Io non ero molto bravo, ero quello sfigato a cui facevano fare gli sfondi. Ero il portaborracce, il gregario del gruppo”. A un certo punto l’intuizione che gli cambierà nel tempo la vita, un piccolo robottino che diventa la sua creatura da cui trarre ispirazione.
Era il periodo di diffusione dei cellulari, di un futuro sempre più digitale, e poi c’era la Torino vista dal quartiere di Mirafiori. La periferia sud, dove le storie delle persone e dei luoghi sono intrecciate con quelle della grande fabbrica (Fiat, ndr). Un ambiente dove si respirano automobili e meccanica. Senza dimenticare il papà ingegnere meccanico: “ho avuto per casa ingranaggi e cuscinetti a sfera tutto il tempo”.
### Il clown e il giocoliere
La vena artistica di Pixel Pancho, stimolata per primo dal nonno, che aveva un negozio di belle arti in città, è oggi molto legata ai materiali: sono oggetto di un’attenzione particolare, la cui ricerca è parte dell’opera. È un artista pragmatico, che si perde poco in fronzoli e riflessioni teoriche, ma è capace di tenerti venti minuti sulle qualità dei diversi tipi di legno.
Quando entri nel suo studio a Torino ti rendo conto che per lui il confine tra sapere artigiano e creazione artistica è molto labile. O come lui stesso rivendica: “l’artista deve saper fare quello che fanno tutti gli artigiani. È come un clown rispetto ai giocolieri. Deve saper fare tutto, e dev’essere molto più bravo del singolo giocoliere perché deve saper sbagliare”.
È questo un momento in cui Pixel Pancho sta “sbagliando”, si è preso una pausa dai giri per il mondo e sta cercando di evolvere nella scultura, oggi al centro del suo interesse. Il suo studio, che è anche la casa in cui vive con la compagna Irene, ricorda molto le boite (le botteghe) della Torino artigiana di inizio Novecento. Ed è difficile capire dove inizia la casa e dove finisce il laboratorio. Tra poco si sposteranno da Mirafiori alla periferia nord in Barriera di Milano, tenendo sempre nello stesso luogo la casa e la passione che li accomuna.
### I viaggi e l’immersione
Se Torino è il luogo delle radici, del ritiro creativo, gli Stati Uniti sono il luogo dove Pixel Pancho ha trovato il maggior riconoscimento del proprio lavoro. A Jersey City, di fronte a Manhattan, ha il suo secondo studio e alcuni suoi importanti collaboratori. Ma gli studi, i luoghi di lavoro, sono per Pixel Pancho in ogni posto in cui trova qualcosa in grado di ispirarlo: dalla condizione degli aborigeni in Australia alle conseguenze della coltivazione intensiva dell’olio di palma in Indonesia, dove ha partecipato, unico italiano, al progetto di arte pubblica Splash and Burn curato dall’artista lituano Ernest Zacharevic.
Nel continente australiano ha passato del tempo nella zona mineraria di Karratha, mettendo la sua pittura al servizio degli indigeni espropriati dalla terra dagli interessi dei latifondisti. Il progetto indonesiano, invece, lo ha portato a Medan nel Sumatra settentrionale, una zona dove per far spazio alla monocutura dell’olio di palma vengono bruciati milioni di ettari di foresta. Lì ha conosciuto il contatto locale di Zacharevic che possiede un garage di riparazione di un triciclo motorizzato molto usato nella zona: il bajaj. Con i pezzi di scarto recuperati nella rimessa ha realizzato due scheletri di orangotango al cui interno crescono delle piante: “li ho posizionati in un parco, sono uno dei simboli perché quegli animali vengono uccisi per far spazio all’olio di palma: sono le prime vittime degli incendi”.
Questi esempi spiegano bene perché Pixel Pancho rientri appieno nella categoria degli “artisti ad immersione”: quelli che hanno bisogno di vivere dal di dentro le situazioni, respirare i luoghi e incontrare le persone per poi raccontare nei modi che preferiscono. Ed emerge sempre un attenzione a non fare del gesto artistico un atto a sé stante, sganciato anche dalle necessità più materiali. Solo così riesce a raccontarti perché sta immaginando i “suoi robot” “con i pannelli solari che creano energia, con pale eoliche che condensano acqua dall’umidità dell’aria”. Nelle sue botteghe in giro per il mondo che vive senza confini, così come nella sua tana a Torino, c’è nell’aria questa nuova ricerca dove l’artista e l’artigiano si influenzano, dove il clown e il trapezista si assomigliano.
#### Photo Credit
Foto di copertina: L’opera di Pixel Pancho a St. Petersburg in Florida, nel 2016, in occasione dello Shine Festival
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